Progetto Lessness. Autobiografia di un’idea.

È dall’apertura della Stanza lo scorso inverno che ho in mente una mostra (ma anche proiezioni di film, reading, seminari, etc.) sul tema della terra, della “terra madre”, della madreterra.
Tra i suoi contenuti: la meraviglia dell’essere fatti di terra (ex terrae facti, cioè esterrefatti), l’avventura dell’abitare la terra come casa e dimora (abitare: verbo non di “stato in” ma di “moto a luogo”); l’ossimoro della terra come utopia vissuta; la “sacralità” della terra anche indipendentemente dagli essere umani; la terra come luogo di contemplazione, dove cioè si edificano templi; infine lo stupore del tremore della terra, di quelle scosse che hanno turbato e attraversato – e sempre attraverseranno, poiché sono la naturale espressione di ogni lembo di terra sulla Terra – la terra su cui “sta” la Stanza nella sua nomade stanzialità, nel sud dell’Umbria.
Cosa c’entra l’arte con la geologia?  (E che cosa c’entra la letteratura con i fenomeni atmosferici e con i sussulti della terra, come si chiede (e risponde) il grande scrittore Amitav Ghosh nel suo ultimo bellissimo libro The Great Derangement, La grande cecità).

Nello stesso tempo avevo iniziato a pensare a una mostra e altri eventi che rispondessero a una formula di Emmanuel Levinas, titolo molti anni fa di un suo articolo prezioso: Un monde sans moi. Sembra facile tradurla: “Un mondo senza di me”. Eppure ha un alone semantico più ampio e sottile, come se a fianco di quella traduzione ne convivesse un’altra più radicale: “Un mondo senza io”.
Coincidenza, mentre pensavo alla mostra sulla “terra” (che, come mostrano i suoi brividi che temiamo così tanto – i cosiddetti terremoti – non ha bisogno di un io né di un noi), un’amica presentava a Roma un’opera dedicata a un albero dell’Orto botanico (vicino a cui ho abitato anni) stramazzato al suolo e dato per morto: salvo ricominciare a fiorire nella sua postura orizzontale di albero caduto per terra, o adagiato. La visita guidata a questo albero è ciò in cui consiste l’opera che Silvia Stucky ha intitolato “Opera senza io”. [NB: segnalo che nel 2004 Jacopo Benci realizzò un video dal titolo “Una giornata lunga senza io”, mutuando l’espressione dal libro La nave per Kobe di Dacia Maraini: a suo dire, così l’autrice immaginava da bambina l’eternità].
È evidente che anche questo secondo tema, questo secondo titolo, “un mondo senza io”, sposta l’attenzione e lo sguardo dalla sfera abitualmente umana a “tutto il resto”. E il resto, come la terra, è cartesianamente ciò che sta fuori dal nostro intelletto, dalla solitudine autarchica del cogito e dalla sua tristezza. La terra stessa, la flora, la fauna, i tremori, gli tsunami, ma anche il cosiddetto soprannaturale, il sacro, e tutto quello che non ha nulla a che fare col nostro ego, con la nostra mente, con il concipere o Begriff dell’umano intelletto “concettuale”.

Lindo Fiore, L’albero di Kassel, 1992

Inizialmente l’idea era di raccogliere sotto questa formulazione (un monde sans moi) lavori sul tema dell’assenza dell’autore, dello sparire o del fantasma (per esempio come le fotografie di Francesca Woodmann, su cui ho molto scritto: per es. in Oggetti smarriti e altre apparizioni), o della cecità (vedi il catalogo Desseins d’aveugles, mostra inventata con in disegni dell’archivio del Louvre da Jacques Derrida) e delle diverse forme dell’invisibilità, irrilevanza e/o anonimato dell’artista (molte opere di Richard Long sono sublimi proprio per questo). Finché mi sono accorto che parlare della “divina indifferenza” (Montale) della “natura” o del mondo là fuori, di tutto ciò su cui il nostro ego e/o il nostro io non proietta ombra, è forse la stessa cosa.
Finché mi è venuta in mente un’altra parola ancora, questa volta in inglese, che mi è sembrata il titolo perfetto.

Ma il titolo di che cosa?
Non so più dirlo di preciso, nel frattempo, ma so di certo che si tratta di una rifondazione.
Ha scritto Wlodek Goldkorn in un intervento recente su “La fine del mondo” (mostra al Centro Pecci di Prato), che essa (la fine del mondo) si manifesta nell’epifania della biopolitica. Che cosa si dovrebbe fare? “Tornare alle origini”, semplicemente. Ma non nel senso (che si scoprì nazista) di Heidegger e del mito della grecità, ma nel senso di “pensare e agire come se il tempo non ci fosse più, riscoprire lo stupore, non aver paura di porre domande prime ed elementari (cosa è il tempo? cosa è l’amore? cosa è la morte?). La Riparazione del mondo forse è oltre il nostro orizzonte, ma intanto, seppure in frammenti, lo possiamo narrare”.
Non posso non pensare a questo proposito alle bellissime video-cabine – luoghi dove si dice la verità – inventate e proposte in questi anni da César Meneghetti, con la partecipazione dei presunti disabili dei laboratori del Sant’Egidio a Roma (un lavoro su cui ho scritto e a cui ho collaborato anch’io a varie riprese). I loro primi piani appaiono su uno schermo e rispondono a domande invisibili su temi elementari e primari – l’amicizia, l’amore, la vita, la morte, l’amore, la disabilità, l’io e gli altri etc. (vedi la mostra I\O _IO È UN ALTRO, presentata al MAXXI nell’autunno 2015/16).

Ed ecco dunque la parola in inglese che vorrei usare, neologismo che fu già titolo di un breve testo di Samuel Beckett, uno degli ultimi: Lessness. Nemmeno Beckett in seguito riuscì a tradurre questa parola in francese (sua seconda lingua), accontentandosi di intitolare la versione francese del testo con la preposizione Sans (Senza, in italiano). Lo scrittore Emile Cioran, che un giorno promise a Beckett di trovargli una traduzione francese più appropriata per l’indomani, si arrese quasi subito alla soluzione adottata da Beckett dichiarando Lessness intraducibile.
Penso che sia Beckett che Cioran siano stati troppo condizionati dal campo semantico della “privazione” e della “mancanza” (parente del desiderio) e abbiano quindi erroneamente limitato a essa, all’essere mancanti, e ad una preposizione (“senza”) il senso dell’avverbio less, sostantivato in lessness. Ma c’è un’altra strada.
Il senso di lessness secondo me non è nel sentire una mancanza ma nel desiderio di “fare a meno” – di qualcosa o di tutto. Designa anche forse una minorità o uno stato di minorazione, ma accettati. Dice forse il partito preso di una minoranza.
Se less è l’affermazione di un meno, di un poco, di una riduzione, lessness è una dimensione esistenziale, estetica, quindi anche politica, come la “decrescita felice”, o come la massima del mio amico Nicolas Bouvier nel suo Il pesce-scorpione: “un passo verso il meno è un passo verso il meglio”.
Figura positiva della minorità, felice consapevolezza di poter fare a meno, lessness lo tradurrei per esempio “essenzialità”, o “l’essenziale”: non si dice forse spesso che “manca l’essenziale”?
Ma che cosa significa, che cosa è l’essenziale?
L’ultima volta l’ho scoperto un anno fa, al ritorno da un’ascesa e un lungo soggiorno alle sorgenti di Ganga (Gange), dentro e sopra l’Himalaya. Su questa esperienza ho scritto un racconto che finisce con queste frasi:

“Nello stupore del ritorno, avevo riscoperto il disagio del “mondo materiale”: che non è solo una parola, ma un’esperienza a trecentosessanta gradi. Il minuscolo villaggio di Gangotri, con le sue piccole bancarelle, i commerci e i ristorantini, da dove venivo io sembrava Roma, un luogo di alienazione e di superfluo. (…) Nei giorni a Gangotri dopo la discesa, e prima di lasciare l’Himalaya, scoprii molto semplicemente che, nel mondo materiale, manca sempre l’essenziale. Non in un senso identificabile a una cosa che manchi – qualunque essa sia, una merce, un libro, una foto o una spezia – ma il contrario, l’essenziale come bene comune, come stile e qualità dell’esistenza. Dove, essendoci pochissimo o poco, non manca mai niente. Viceversa scoprivo che, nell’abbondanza, è come se mancasse sempre tutto, o quasi”.

Post scriptum:Lessness inizia il 24 giugno con un evento di gioco, in cui sfruttare le potenzialità dello spazio della Stanza. Durante la giornata inaugurale del 24 la Stanza sarà a disposizione dei visitatori.
Ognuno è invitato a portare un quadro, o comunque un oggetto, che vorrebbe mostrare, e che collocherà liberamente nella Stanza per un allestimento estemporaneo collettivo. Oppure parteciperà scrivendo o disegnando su un lungo rotolo di carta uno statement sul tema, che sommandosi a tutti gli altri, diventerà un testo collettivo da ri-elaborarsi in forma progettuale. E tanto altro…