La parola terra (intervento fatto all’inaugurazione della mostra “Fatti di terra”, 29/10/2017)

     “Si viene al mondo grazie a quella terra e si è di quella terra ora e per sempre. Venendo al mondo è quella terra; non venendo al mondo è pure quella terra”. “Fatti di terra, non si può perdere né acquistare terreno. […] La nostra pratica, così come la nostra strada, è inventare il senso della terra d’origine, la terra natia” (Maestro Zen Fausto Taiten Guareschi)

La parola “terra” – terra – ha una pienezza speciale, come se la sua sonorità convocasse, nel pronunciarla, tutte le sonorità di ciò che terra designa: la terra, terra terra… Come se terra fosse (e di fatto è) una parola onomatopeica, ma di un’onomatopea insolita, totalmente semantica, non solo fonetica, che non indica ma espone nella nudità del suo suono il senso e la sostanza, non solo la forma apparente, di ciò che dice il suo nome. Certo, non è l’unica parola a godere di questa speciale pienezza, ma non c’è dubbio che la sua sola pronuncia comprenda tutto il suo essere.

Forse i linguisti direbbero a questo punto che “terra” è addirittura una parola performativa: in qualche modo, cioè, essa fa ciò che dice, come certi verbi speciali tipo dichiarare, promettere, o, più vicino al nostro tema, “dissotterrare l’ascia di guerra”. Esempi di un dire che è fare. In altre parole, Terra è dunque un mantra: crea ciò che dice mentre lo dice. Fa quello che dice evocandolo, e vi si mette al servizio. La terra richiama infatti uno spirito di servizio, rende coloro che la dicono suoi servitori. “Poeticamente abita l’uomo”, come scrisse Hölderlin ricordando nel fare stesso, la poiesis, l’otigne della poesia. La parola terra è l’embrione di ciò che chiamiamo poesia. La terra dunque ha origine nella parola che la dice, e viceversa. La bocca che la pronuncia è per così dire sporca di terra, o della meraviglia dei suoi frutti. Non è forse cercando di pulire il piccolo Gopala, che aveva forse mangiato della terra, che in giorno la madre del Signore Sri Krishna vide dentro la bocca del suo bambino la Terra e gli altri pianeti, le stelle e tutto il firmamento, le galassie, l’universo e gli innumerevoli astri e mondi che esso contiene, e tutti i mondi dentro la terra, nel passato e nel futuro, fino a noi stessi, qui, che ne stiamo parlando con stupore, e scoprì così, la madre di Krishna, che il proprio bambino era Krishna, il creatore stesso dei mondi?

Ripeto: la parola “terra” è un mantra, crea ciò che dice mentre lo dice.

Poi vi sono parole come mondi, mondi e parole come biglie che corrono e con le quali giocare, come le opere degli artisti che hanno giocato (come con le biglie) con i diversi materiali che hanno sognato e trovato, scoperto e inventato.

Marco Tirelli, Senza titolo, 2016

Marco Tirelli e le sue ombre che diventano sostanze, dove essere fatti di nebbia o di terra, di polvere o di carne, di carbone, sono tutti sinonimi, così come luce e mistero (non si dice infatti “mistero della luce”? No? Beh, se non si dice lo dico io…). Qualcosa di simile, pure da contemplare, lo direi per le mappature di Paolo Canevari, che nella materia dura e duttile e terragna della gomma fa emergere pianeti infinitamente piccoli (o infinitamente grandi) fatti di diamanti. Ma anche i diamanti sono “fatti di terra”, fatti della terra.

Luigi Ghirri, Valli veronesi, 1988

L’amico di tante avventure Luigi Ghirri, che aveva la sezione aurea incorporata nell’anima e negli occhi, mostra la terra che parla, mormora, canta, perché la sua terra, che fosse lungo la via Emilia o nelle valli veronesi, è come un concerto di musica sinfonica: le zolle suonano e compongono una musica sinfonica, si potrebbe dire celeste, se non fosse anche terrestre. Fu Luigi Ghirri a dire una volta a tavola, mentre ognuno parlava delle fotografie più importanti per a propria formazione (come quella del mitico scambio di borraccia tra Coppi e Bartali, nel Tour de France divenuto celebre), Luigi Ghirri insomma disse che la foto della terra vista dalla luna era “la prima fotografia del mondo”.

Fatti di terra sono i libri e le mappe della terra, quella delle belle sculture di Naoya Takahara, che con dolcezza e ironia, giocando col vuoto e col pieno, con la forme che è vuoto e viceversa, fa vedere l’immagine e il sogno del mondo come era disegnato nelle mappe europee del Quattrocento, un’epoca decisiva: quella in cui, proprio in nome delle mappe si fecero le prime grandi guerra; l’epoca della gloriosa e temibile invenzione della prospettiva, quando invece che celebrare l’attesa dell’altro, l’accoglienza dell’altro, da quel punto di origine, si preferì guardare nella prospettiva un punto di fuga, un punto di conquista e di irradiamento di sé. La guerra dei mondi, la guerra terrestre. La sua mappa della Terra è intagliata nel bordo delle pagine fitte di libri rilegati, mappe del sapere, e a guardarla sembra a sua volta un elefante, oppure un bisonte. E cosa sono quelle lucertole o quei camaleonti fatti di vuoto sopra i libri? Un ricordo dell’origine o un’immagine del futuro della Terra?

Sulla parete: Gea Casolaro, South; sul tavolo: Naoya Takahara, Continenti ‘400; Gianfranco Baruchello, Mud Sling Equipment.

Non è forse la storia universale e terrestre di questa violenza che è sottintesa, con uno sberleffo, nel dispositivo per schizzare fango del duchmpiano Gianfranco Baruchello? Mud sling equipement, una valigetta che contiene l’occorrente per infangare – naturalmente per infangare gli altri…

Sempre per questo, forse, sulla Terra ha fatto opere bellissime Ines Fontenla, di cui ricordo l’installazione Requiem Terrae, dove i continenti giacciono frantumati come vetro in un lago di zolle di terra, oppure si squagliano come gelati alla frutta dalle carte geografiche “politiche” del mondo, o semplicemente se ne vanno.

Sulla terra viva ha fatto fotografie commoventi, nella loro serenità e purezza, Salvatore Piermarini, che decenni prima che i suoi tremiti di vita risultassero catastrofici per la grande cecità degli umani sulla terra, ha fotografato la serena bellezza estetica delle faglie del terremoto, la bellezza della terra alla frontiera tra le Marche, l’Umbria e l’Abruzzo, la terra insomma in tutta la sua potenziale vitalità, forza, intensità, energia, ma a riposo. E anche la sua dolcezza, con i cavalli liberi che brucano placidi l’erba tra le crepe vive e millenarie.

È la dolcezza dello sguardo sussurrato, pieno di spiritualità, che spinge in questi anni Daniele De Lonti, in escursioni non prive di rischi, a fotografare le montagne più alte nell’ora più buia, quella che precede l’alba, mostrandoci la sottilissima quasi evanescente linea di demarcazione tra visibile e invisibile. Una ricerca simile a quella del gruppo Ticon3, che esplora con ostinata pazienza l’idea e l’esperienza di orizzonte, di territorio, di limite, di percettibile e impercettibile, e soprattutto quella dell’abitare: che cosa è abitare – abitare la terra, lo spazio, le isole – che cosa è guardare lo spazio da cui e in cui abitiamo, quell’abitare che è l’avventura delle avventure, che sempre verbo di moto a luogo, non uno statico stato in luogo…

È ancora in riferimento alla comune grande cecità dell’uomo – the Great Derangement, come lo chiama lo scrittore Amitav Ghosh, che impedisce all’uomo di raccontare il mondo, la terra, come se non gli appartenesse, cioè la terra senza l’uomo – che Gea Casolaro ci mostra il suo amore sconfinato per la Terra negli stupendi paesaggi della Nuova Zelanda, che ribaltando cielo e terra contestano la secolare superbia della visione occidentale del mondo, e del punto di vista nordico.

Hans-Hermann Koopmann, Terrascopio (Earthhole), 2015

Buffa coincidenza: Hans-Hermann Koopmann ci mostra la sua straordinaria invenzione ottica: un terrascopio per guardare lontano, dall’altra parte della terra, che per noi corrisponde ancora una volta, alla Nuova Zelanda. Credo che Gea e Hans-Hermann non si conoscano, e sono quindi lieto di averli fatti incontrare qui, oggi.

La terra si ribella alle imposizioni e alle omissioni dell’uomo civilizzato anche in altri modi sottili. Ne sono simbolo le immagini di Silvia Bordini delle cosiddette erbacce urbane, le erbe spontanee che sorgono negli angoli delle strade, che spuntano tra i lastricati e gli asfalti, nelle fenditure dei marciapiedi (come i capperi che amano invece arrampicarsi tra le pietre e le fenditure dei muri più antichi), promessa di un lussureggiante rimboschimento, se non cambiamo rotta e stile di vita, se non trasformiamo le nostre plastiche, asettiche città, l’insieme dei garage e parcheggi per umani che chiamiamo case e abitazioni.

Claudio Pieroni, con l’aiuto di un radar, un monitor, un computer e quant’altro, ci avvolge invece qui dove siamo di tutti i mondi che ci rimbalzano intorno – come biglie appunto – dentro il nostro mondo. La sua installazione che capta ciò che accade intono, che capta le storie di tutti, anzi di ognuno, ci fa pensare che forse viviamo anche noi in una specie di flipper. Mi ha ricordato un bellissimo verso sull’inquietudine di Lou Reed in Sunday morning. Quando dice: “attento ai mondi dietro le tue spalle / ci sarà sempre qualcuno che ti chiamerà”. Di chi o cosa sia questo ostinato richiamo, sta a noi e al coraggio della nostra anima scoprirlo…

Claudio Pieroni, Mondi (installazione)

È a questa stessa inquietudine, e alla sua possibile conversione, che si richiama forse Andrea Fogli, che ha portato i suoi grani di argilla cruda e dura, che sembrano aspettare di essere composti in ghirlanda, in mala, in rosario… Grani certamente parenti dell’altra terra, però cotta, il gres delle mattonelle dedicate alle piante che compongono un sentiero di alberi sacri ideato e creato da Costanza Ferrini. Parenti, anche, del divenire albero dell’uomo – e del divenire umano dell’albero – de l’Albero di Kassel di Lindo Fiore, fusione di fratelli, figli di madreterra; e del mescolarsi delle “colline che si incontrano” offerte da Silvia Stucky, già autrice di un’opera dal nome “Opera senza io”.

Infine: Luo Guixia ha offerto il dono più grande: ha offerto se stessa, la propria colpevole innocenza. La propria vita clandestina radicale nella terra in cui e da cui è stata fatta: leggete la sua breve presentazione e capirete.

Questa mostra è un invito a ripensare alla terra. La terra che ci tiene per i piedi, e per la quale forse solo i nostri piedi contano. Ripensare il senso di essere-umani-sulla terra. La terra come casa ma anche la “sacralità” della terra come luogo di contemplazione – dove cioè si edificano templi. Lo stupore infine del suo tremore, la sua vita indipendente dall’uomo, come quelle scosse che hanno turbato e attraversato – e sempre attraverseranno, essendo la naturale espressione di ogni lembo di terra sulla Terra – la terra su cui “sta” la Stanza nella sua nomade stanzialità, nel sud dell’Umbria. L’umano stupore è insito già dal nome nei “fatti di terra”, ex terrae facti, cioè “esterrefatti”.

Questa mostra è il primo capitolo di un lavoro collettivo che parte dalla parola Lessness, coniata da Beckett ma mai sviscerata né tradotta, e che si tratterebbe – così avevo proposto in un altro testo – di sottrarre all’ambito semantico della mancanza, facendone viceversa il nome dell’essenzialità, dell’essenziale, del piacere di fare a meno. È un invito a pensare al mondo senza io, o senza di me; alla terra senza l’umano, al sublime dell’inumano. In effetti, non vorrei parlare né che si parlasse della terra, non a caso la parola terra si tramanda e si comprende soprattutto con il punto esclamativo. Terra! A quali altre parole si riserva questo trattamento, questa dedica, se non alle parole e ai nomi che ci conducono al Divino e alle sue emanazioni, alle sue forme?

Sul monolite, come chiamo il muro quadrato di questa Stanza che era in realtà lo schienale di un altare, possiamo vedere alcuni di questi frutti e di queste forme, legumi compresi. E insieme la dea Bhumi (come Cerere, dea materna della terra e della fertilità, venerata soprattutto dagli osco umbri e assimilata alla greca Demetra) è il nume tutelare dei raccolti, dea della nascita, poiché tutti i fiori, la frutta e gli esseri viventi sono ritenuti suoi doni, così come la coltivazione dei campi è stata insegnata da lei agli uomini.

Contemplate la verdura, i legumi e la frutta che poi mangerete: vengono dalla terra sacra di cui si era già presentata qualche zolla lo scorso 24 giugno. È incorniciata, del tutto casualmente, dallo story board di disegni di Primarosa Cesarini Sforza, che in qualche modo allargano l’area della coscienza del famoso verso di Hölderlin riportato sopra, e di cui adesso faccio una parafrasi: “poeticamente abitano le Creature”. Mi ha colpito molto, tra profili animali e vegetali, ragni e fiori, la ripetizione dell’immagine delle mani nell’opera di Cesarini Sforza. Poeticamente, creativamente, forse devotamente, la terra la scriviamo con le mani.

Scrivere con le mani. Essere fatti di terra. Sono tutti sinonimi. Anche se la terra di noi conosce solo i piedi, anche se la terra ci tiene per i piedi.  Ci sono cieli dappertutto. Arrendiamoci.