La Casa e le Stagioni – Casa Ghirri

(una mostra alla Stanza dedicata a Luigi Ghirri a 25 anni dalla scomparsa)

Un giorno, mentre stavamo passeggiando in un paesino dell’Emilia, Luigi Ghirri fu salutato da un vecchio compagno di scuola che gli chiese cosa facesse nella vita. Il fotografo – rispose. “Ah, e dove ce l’hai il negozio?” Non ce l’ho. “E allora dove le fai le foto?” Mah, fuori, all’aperto, dove capita, anche per strada, disse Luigi vago. Al che l’altro, costernato, lo guardò come se fosse un povero disgraziato.
L’aneddoto fa ridere perché il fotografo Ghirri è oggi giustamente celebrato (e lo era già allora) come uno dei grandi artisti della seconda metà del XX° secolo. Un maestro non solo del guardare il mondo, verso il quale non ha mai cessato di sentire meraviglia, ma dell’abitare, dell’amore per i luoghi, anche quelli apparentemente più spenti e banali. Tra gli insegnamenti di Ghirri, oltre al guardare e all’assoluta assenza di disprezzo per qualsiasi luogo, c’è l’accoglienza e freschezza con cui capovolse l’Ecclesiaste: “nulla di antico sotto il sole”. Ma tutto questo è ormai noto.

Nell’autunno del 2011 alcuni amici di Luigi e Paola Ghirri (Daniele Delonti, Vittore Fossati, Gianni Leone e il sottoscritto) si riunirono vicino a Reggio Emilia nella casa provvisoria di Paola, gravemente ammalata, per immaginare insieme un’iniziativa che ricordasse l’amico nel ventennale della sua scomparsa, avvenuta prematuramente il 14 febbraio 1992.

Si pensò tra l’altro a un archivio da ospitare nella casa di Roncocesi, dove Paola sperava di tornare presto, una volta finito il restauro dopo l’incendio che l’aveva resa inagibile. Ma Paola morì un mese dopo quell’incontro, l’8 novembre 2011. “La custode della luce si è spenta”, titolò Stefania Scateni su l’Unità. La ricordanza e i progetti sarebbero stati anche per lei, che non solo lavorò a fianco di Luigi, ma per vent’anni ne aveva curato l’archivio. In un’intervista con Stefania Scateni Paola aveva parlato del lascito del marito: “Il suo disordine ha una forza intrinseca, di sicuro prima o poi spunterà una foto che metterà in discussione la catalogazione fatta fino a quel momento. L’archivio non vuole che sia messo in ordine, Luigi non vuole”.

Nei giorni del funerale le persone nominate sopra, tre fotografi e uno scrittore, dopo aver visitato la casa ancora allo stato di cantiere, decisero di fare un reportage da quel luogo amato ma dismesso, “Casa Ghirri”. Ci guidarono la frase di Paul Cézanne – “bisogna fare presto, perché tutto sta per scomparire” – e un’altra dello stesso Ghirri che compendia buona parte del suo anelito: “Vedere un paesaggio come se fosse la prima e l’ultima volta determina un sentimento di appartenenza a ogni paesaggio del mondo”.

Così come Ghirri aveva composto alla fine degli anni ’70 un autoritratto attraverso un Identikit delle mura domestiche e degli oggetti, libri e dischi (ciò che più di vent’anni dopo fece Jean-Luc Godard in JLG/JLG Autoportrait de décembre), questo lavoro sarebbe stato anche rivisitazione e omaggio di quell’identikit.

foto di Vittore Fossati

Tornammo a Roncocesi un fine settimana di dicembre, e ci vedemmo la sera. Ci aggirammo come ombre nella casa sottosopra, mobili e libri familiari coperti da plastiche come sudari, tra smarrimento e vertigine di non sapere cosa esattamente preservare e come. “Salvare in memoria” non significa oggi dimenticare? La sera presi i primi appunti. Le immagini della casa intaccata dall’ombra. La cucina vuota. La libreria a destra del corridoio d’entrata, e le ripetute epifanie nelle foto di Vittore – l’immagine dell’eclisse di un 8, i regali reciproci di Paola e Luigi (Luigi: “la prima fotografia della Terra è quella fatta dalla Luna”), l’8 rovesciato, l’infinito, e “Infinito” fu in nome dell’attività di Paola e Luigi, ancora l’8 formato da un nastrino che lista a lutto la scatola di foto del set del film (La strada provinciale dell’anima), altri 8, e otto (e che cosa lega l’8 all’ottica?).

Foto di Vittore Fossati

Ricordo che pensai che la vita assomiglia a volte ai fenomeni di erosione della memoria e del linguaggio delle patologie senili, quelle che descrisse Roman Jakobson nei libri di linguistica che ci facevano leggere all’università per spiegare la poesia. Qualcosa scompare, si buca, crepa, si perde, o si metaforizza. Ma la vita, il corso della vita, non è esattamente questa erosione, questa usura, questa progressiva metafora della metafora, sempre più lisa e logora, quasi invisibile, irrappresentabile, fino all’estinzione? E quello che luccica, che resta, e che per il suo strenuo luccicare ci sembra chissà quale mitico frammento narrativo, una rivelazione – non è semplicemente quello che resiste all’usura, quasi casualmente, come un pezzo di tessuto piuttosto che un altro? Poi, come è umano che sia, noi ci proiettiamo tanti sensi, significazioni simboliche, illuminazioni…

Gli scatti di Gianni Leone, Vittore Fossati e Daniele Delonti compongono oggi uno strano “album” di “ricordi”, quelli di una vita quotidiana interrotta. Anteriori a ogni valorizzazione estetica (come il quadretto della torre dell’orologio che stava sopra un camino della casa, come i bellissimi trompe l’oeil che Paola amava fare sulle pareti) la loro forza è nel rendere assenti anche le cose presenti, conferendo loro una vita sospesa, quella del rimpianto. O dell’arte. Mi viene in mente quel verso famoso del poeta René Char: “non sopprimete la lontananza”.

Pochi del resto abitarono la propria casa con l’intensità di Luigi Ghirri, che non vi allestì mai nessuna camera oscura né isolò mai uno studio dal resto degli oggetti che l’affollavano. Tutto nasceva e tornava a casa, dopo le sue incursioni nel grande fuori. Ma, grazie alla verità e alla meraviglia con cui rendeva straordinario ciò che è ordinario, Luigi insegnò che le case, come i cieli, sono dappertutto.

Foto di Gianni Leone (su uno scatto di Luigi Ghirri)

Ha scritto Daniele Benati nella sua Ballata per Luigi Ghirri, a proposito della camera in cui dormì per anni col nonno e resa famosa da Ghirri (Casa Benati, “Via Emilia”, 1985): “l’avevo avuta sotto gli occhi tutti i giorni e non l’avevo mai vista, non avevo neanche mai pensato che si potesse fare una foto lì dentro, eppure Luigi l’aveva fatta”. E “se Vermeer fosse al mondo oggi piacerebbe anche a lui”.

Qualunque cosa diranno i futuri curatori della sua opera, Luigi Ghirri fu pioniere tutt’oggi insuperato (nomi altisonanti dell’arte hanno preso spunto da lui) che sfugge le catalogazioni: dall’arte concettuale (mai rinnegata) passò al territorio, ovvero a ciò che non siamo più capaci di vedere, sfidando la presunta banalità dell’ordinario e rifuggendo ogni effetto “speciale”. Approdò alla nebbia, al bianco della neve, alla cancellazione del paesaggio, e restò sempre fedele all’Infinito: “dentro i musei / l’infinito viene giudicato”, cantava l’amato Bob Dylan, ma ciò che si vede e risuona nelle sue immagini non esclude ciò che non si vede, che insiste e mormora nel cosiddetto fuori campo: l’infinito, appunto. Strana pretesa, mi confidò una volta, sottrarre un oggetto, un particolare, dal resto della Creazione o del mondo. È questa coscienza del Tutto che le sue foto non cessano di suggerirci.

Tornando al nostro reportage dalle ombre, aggiungo che dietro quello che si vede, tra le epifanie e le coincidenze (come il ricorrere dell’8 rovesciato, cioè ancora una volta dell’infinito: titolo di foto memorabili di Luigi ma anche di un’attività professionale che ebbe con Paola), tra i libri e i dischi amati (Bob Dylan, naturalmente) dietro sìndoni di plastica, c’è il mormorio e la luccicanza dell’umano romanticismo del frammento: dove vanno le cose di tutti, impregnate d’anima e impronte, di quei fantasmi che ci ostiniamo a chiamare arte, poesia, filosofia? Dove vanno i segni che abbiamo tracciato, le cose senza le persone, così simili ai luoghi senza le persone che costituiscono il brivido metafisico e dolce di molte foto di Luigi? Il fatto è che non esiste geografia, e nemmeno un catalogo delle cose, al di fuori dell’umano e del suo sguardo – “l’omino sui ciglio del burrone”, come Luigi chiamava il mirino del fotografo.

È la prima volta che le immagini di questa ricognizione per certi versi drammatica sono mostrate al pubblico, con un titolo che è un intimo omaggio: La Casa e le Stagioni. È il nome che Luigi voleva dare a “un luogo per le arti” da creare nel fienile di fronte a casa sua, uno spazio in cui invitare amici a esporre o creare immagini e suoni, e dove, ha scritto Giorgio Messori, “ci si poteva accorgere ancora delle stagioni, dei fiori che sbocciano e appassiscono, delle cose che muoiono per poi rinascere. Luigi credeva che se molti adesso sono infelici è perché vivono fuori dal tempo delle stagioni”. Purtroppo, detto banalmente, nessuno di noi fu allora in grado di acquistare quel fienile.

Per uno di quei twist of fate che piacevano a Luigi, questa mostra avviene in un “luogo per le arti” che prosegue quel progetto. È dentro un edificio trecentesco che comprende un convento francescano, nel centro storico di Narni ma affacciato sulla valle del fiume Nera. Si chiama Stanza, parola che, a partire da Dante, non significa più solo lo spazio in cui il poeta (come prima di lui il mistico e il monaco) viveva il suo dialogo con l’Assoluto, ma anche la forma della sua opera, la stanza, sinonimo di “poesia”. Perché non dovrebbe essere valido per la fotografia e per ogni arte?

Foto di Gianni Leone