Fatti di terra da un tappezziere

Of Brussels – it was not –

Of Kidderminster? Nay –

The Winds did buy it of the Woods –

They – sold it unto me

It was a gentle price –

The poorest – could afford –

It was within the frugal purse

Of Beggar – or of Bird –

Of small and spicy Yards –

In hue – a mellow Dun –

Of Sunshine – and of Sere – Composed –

The Wind – unrolled it fast –

And spread it on the Ground –

Upholsterer of the Pines – is He –

Upholsterer – of the Pond –

 

Non era di Bruxelles, no,

nemmeno di Kidderminster.

I venti l’avevano comprato dal bosco

e a me venduto

a prezzo di cortesia:

anche il più povero poteva permettersi la spesa,

anche un mendicante, o un volatile.

Poche e profumate iarde

di colore bruno lucente

come il meriggio o una foglia appassita

composti principalmente di sole.

Il vento l’aveva dispiegato,

velocemente sparso sul terreno.

Il tappezziere dei pini

è il tappezziere dello stagno.

 

La parola “upholsterer” non è molto usata in poesia. La sua origine, risalente a metà del XVII secolo, è legata al mestiere di “upholstery”, parola a propria volta derivata da “upholden” (riparazione per riempimento) che è un composto di “up” e “hold”, il secondo termine con significato antico di custodia, guardia, contenimento, mantenimento o rifugio. Questa poesia di Emily Dickinson (la 602, secondo la numerazione di Thomas H. Johnson) mi colpisce, per le immagini precedenti – le due città iniziali (in fondo qualsiasi, tanto più perché in negativo, anche se una lettura realistica vuole si riferisca agli arazzi di Fiandra o a noti tappeti inglesi, originari appunto delle due città), il costo contenuto e accessibile alla spesa di una borsa frugale o di un uccello, la tinta marrone accecata dal sole, l’apertura come un foglio che si spiega sulla terra – ma soprattutto per l’apparizione sorprendente di questo “tappezziere”. Esso è mestiere non di costruttore, ma di riparatore. E mi viene da apparentarlo al “tikkun ‘olam” (תיקון עולם) della tradizione ebraica, sorta di comportamento etico che tiene in piedi il mondo riparandolo.

Di cosa sto farneticando? Di quel senso di appartenenza al paesaggio – e dunque alla terra, al “fatti di terra” di questa mostra – che, mentre affascina e cattura, impegna alla protezione, anzi la insegna. È un moto di fedeltà (se non ricordo male ne parlava in questi termini anche Andrea Zanzotto, in una delle sue ultime interviste) e di obbedienza, un’aderenza alla gloria naturale (Proust, en passant, pone in ciò l’eleganza di Madame Swann), che però non è rimanere passivi davanti al suo spiegamento, semplicemente accogliendo. Piuttosto è mettersi al lavoro, nella dignità del lavoro, umilissimo e paziente come quello di un tappezziere. Molto ci sarebbe da dire – se non fosse meglio il più delle volte tacere – sulla necessità di partecipare alla terra, proteggendola prima di tutto da noi stessi, cioè ricercando una purezza, non solo di sguardo, che ci nobiliti al suo cospetto. Un lavoro di sottrazione, appunto, che Beppe Sebaste indica benissimo con il termine “lessness”. Buona visione, e buona immaginazione ai visitatori della mostra. Buona “riparazione” nei giorni che la seguiranno.